Il ritratto evanescente

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Euripide ci narra la triste storia di Alcesti, giovane donna che decide di donare la sua vita in cambio della salvezza di Admeto, l’uomo amato. Admeto subito dopo la morte di Alcesti fa costruire una statua in suo onore, in modo che possa giacere con lei e sostituire l’amore perso con un suo ritratto cosicché imitato dalla mano di abili artefici, il tuo corpo giacerà nel mio letto: su di lei mi lascerò cadere, e cingendolo con le braccia griderò il tuo nome: e crederò di avere fra le braccia la mia cara moglie, pur non avendola.

Nell’antica Grecia fare una statua mortuaria per la persona cara era una pratica comune. Sappiamo che anche Butade, scultore di Sicione decise di fare il ritratto dell’amato della figlia, che lei aveva ritratto ricalcandone l’ombra su un muro. Ciò che ha spinto Butade, come Admeto, in greco si chiama póthos, ovvero il desiderio inappagabile di toccare la persona amata ormai lontana dalla vista e dal cuore.

La perdita della persona amata è qualcosa che non si riesce a capire e a comprendere. Solo pensieri, ricordi e nessuna risposta. Ciò che rimane è solo il calco di un volto, la maschera fatta da mani di abili artefici in gesso come avveniva nell’antica Grecia oppure come quelle che giornalmente vengono fatte dai tecnici degli ospedali per la cura del tumore al cervello. Un volto che non c’e più, ciò che rimane è tutto in quel calco, i suoi tratti stilizzati, e l’unico modo per accarezzarla.

Ma la vita non aspetta e allora si ricerca il sé, quel sé che ormai è diventato a metà e deve trovare la forza e il coraggio di guardare al futuro perché il passato non tornerà più e l’amore, interrotto così bruscamente, può solo fortificare e insegnare.

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Foto e Testo © Claudia Stritof. All rights reserved.